LAURA DE SANTILLANA / concert
BANARAS GHARANA - classical & semi classical music of India
A Journey of Love & Peace
INTERPRETI / Artists:
SUNANDA SHARMA (VOCE / voice)
JAI SHANKAR (PERCUSSIONI / percussions)
AHMED TOFAIL (HARMONIUM / harmonium)
MARGED TRUMPER (TANPURA / tanpura)
Perché Laura decise di realizzare le sue ultime opere nella Repubblica Ceca?
In uno degli ultimi nostri viaggi nella Repubblica Ceca ci capitò di incontrare Jaroslava Brychtová e Laura si mise a chiacchierare con lei. C’erano dunque queste due donne grandi artiste del vetro che tra di loro chiacchieravano. E di che cosa parlavano? Non parlavano certamente delle motivazioni profonde dell’arte della Brychtová o dell’arte della Santillana ma parlavano di chi fossero i loro collezionisti, di dov’era che il mercato funzionava meglio e cose simili. La Brychtová addirittura raccontò che a causa della crescita dei prezzi nella stessa Repubblica Ceca che è la patria del cast, erano andati a fare il cast in Cina! Perché in Cina costava meno.
Di questo parlavano le due donne: dove lavorare , realizzare i propri progetti là dove il lavoro costava meno.
Come gli imprenditori di tutto il mondo?
In un certo senso anche gli artisti sono imprenditori di se stessi.
Ma c’era anche un’altra ragione, sicuramente più importante. Ed era la stanchezza assoluta di Laura del fare per anni, di lavorare per anni sempre sullo stesso concetto, sulla stessa scoperta.
La prima scoperta tecnica di Laura era stata quella di mettere a contatto due superfici di una sfera di vetro e far avvicinare le due pareti in maniera che entrassero in contatto, schiacciarla insomma, cosa che non era mai stata fatta a Murano . I primi a stupirsi furono infatti i maestri muranesi davanti a quest’operazione : “ ma come ha fatto Simone ( Cenedese) ad evitare che le due pareti in contatto non creassero delle rotture in muffola?
È stata una storia molto lunga, fatta di pezzi che si rompevano, furono tanti; si andava e veniva dalla stazione sperimentale del vetro, fin quando Simone trovò l’equilibrio giusto nei tempi in cui andare al fuoco e lavorarlo fuori per un tempo, dentro e fuori , dentro e fuori dal fuoco, fino a quando non sono usciti stabilmente senza rotture i primi monocromi , che divennero poi con gli incalmi le Flags.
Naturalmente non si trattò solamente di una scoperta tecnica. Il chiudere la bocca del vaso voleva dire per Laura che quell’opera non poteva più essere usata per metterci dentro dei bei fiori ma andava fruita solamente a livello estetico, era una scultura.
Parlavamo di una stanchezza di Laura verso le Flags
Laura diceva: basta! A chi chiedeva ancora altre Flags disse: “ne ho già fatte troppe, basta, non mi diverto più!”.
Per quanto si possa credere, come Laura credeva, nella serialità, nell’importanza della ripetizione, di una ripetizione che ha una modifica continua e piccola ogni volta, ma che ruota sostanzialmente intorno allo stesso concetto di base, una formula che si ripete, questa scelta le proveniva in parte dalla conoscenza dell’arte contemporanea dove il concetto di serialità, la ripetizione dello stesso nucleo è presente in tantissimi artisti della generazione in cui Laura si era formata specialmente in America , questa scelta principalmente derivava dal fatto che Laura nasce in VENINI, nasce nel posto dove la ripetizione della stessa forma è la virtù principale del maestro, la serialità era, è, la base di quella struttura semi industriale che era la Venini.
Laura, avendola subita nell’imprinting della sua formazione la rinnovava con l’ inserire dentro questa formula che aveva trovata nelle Flags un elemento non prevedibile, quello che lei chiamava “lasciarsi sempre una finestra aperta” da dove la realtà esterna potesse arrivare, dove il caso potesse arrivare a modificare quello che tu hai codificato, fissato con la tua formula. E nell’avvicinamento delle due pareti della sfera il caso formava delle figure, si attaccavano le pareti ogni volta in una non controllabile maniera e nel punto di contatto si formava, visibile specialmente nei cristalli, una qualche figura. Il caso aveva disegnato con lei.
Torniamo a Novy Bor. Cosa cercava Laura in quel paese?
Si può dire che Laura stava cercando di continuare a fare le bandiere, i monocromi, i Tokyo Ga con una tecnica diversa che le costasse di meno che a Murano, e vedere insieme dove potesse arrivare a furia di incollare vetro su vetro. E fu un’avventura a cui la guidò fin dall’inizio con i suoi consigli Charlie Parriott, che era stato un collaboratore importante di Chihuly, che era un amico di Alessandro, e che aveva aiutato i due fratelli Santillana, Alessandro e Laura, a fare la loro mostra americana a Tacoma nel 2010.
Se si guardano i filmati di quel periodo si vede Charlie che impazza con i suoi piccoli setacci da cui filtra delle polveri sopra i cilindri di Alessandro o sopra le stelle di Laura, cose di questo genere insomma . Charlie aveva una grande esperienza della Repubblica Ceca e del vetro che là si faceva , era un amante di quel paese dove desiderava addirittura trasferirsi. Charlie era stata la prima persona a cui Laura si era rivolta e gli aveva esposto i suoi problemi di come cercare di realizzare le sue opere nella Repubblica Ceca in maniera da abbassare i costi delle fornaci Muranesi . Charlie l’aveva portata un po’ in giro a vedere tutte le varie tecniche in uso in quel paese, chi è quello e che faceva, dove, come e quando insomma. Arrivammo così a Novy Bor, uno fra i più importanti centri del vetro boemo, dove Libenský aveva diretto la scuola d’arte per anni e dove Peter Novotny , famoso maestro boemo aveva due fornaci, una più piccola per bicchieri e coppe in cristallo ed una grandissima dove si poteva fare di tutto.
Novy Bor, la fornace Ayeto
Ed i colori di Venini, i colori di Murano, il colore?
Oltre alla situazione economica c’era il fascino importante del poter utilizzare nella Repubblica Ceca qualche cosa che soltanto là si faceva . ed era questo colore, il famoso Uran che in Europa, nelle fornaci europee è vietato e che in Boemia viene usato con parsimonia, sotto un certo tipo di controllo in certi periodi, non costantemente
Laura quando parlava di se stessa nelle interviste che spesso le facevo, quando le chiedevo “che cosa hai fatto di importante nella tua vita, qual è il filo che hai seguito”, diceva: “il colore, per me è nel colore che ho fatto qualche cosa che ha un sua continuità nel mio lavoro già dal tempo della mia scuola di Design a New York... Ho dato il mio contributo alle ricerche sul colore nel vetro, come creare dei nuovi colori, sperimentare nuovi rapporti tra i colori del vetro “.
Quando ultimamente nel centenario del 1921 la VENINI le chiese se volesse creare un opera che sarebbe stato messa in produzione per celebrare il centenario della fondazione ad opera di suo nonno, Laura rispose negativamente perché questo non era conveniente per lei.
Ma aggiunse: “ho una controproposta per voi che mi interessa. Vorrei lavorare a risistemare l’universo del colore della VENINI, cioè intervenire sui colori delle vostre produzioni in totale, dei vari crogioli di colore, della composizione chimica dei vari colori” , cosa che era stato il lavoro fondamentale della ricerca sul colore di suo nonno Paolo Venini che ci perse quasi la vista perché metteva mano sulle composizioni delle polveri e con cui si fanno i colori per i vari crogioli. La proposta era piaciuta ma non si è potuta realizzare.
Ritornando a noi, questo fascino dell’utilizzare e fare un colore in tutte le sue variazioni non solo chimicamente ma attraverso le velature, attraverso le immersioni, sommersioni in crogioli diversi, partendo da un colore, questa tecnica Laura se la portò anche a Novy Bor.
Parriott ed i soffiatori della fornace Ayeto, rosso ed Uran
Se il soffiatore immergeva la sua canna prima nell’ Uran, e dopo l’Uran andava nel rosso veniva un rosso che aveva dentro l’Uran che lo modificava, era un rosso diverso. Tutte le combinazioni di cui Laura era maestra si arricchivano di una gamma di colori che Laura non aveva ancora sperimentato in tutto il suo lavoro a Murano. Per la sua serie de I Bambù, mi diceva Cenedese, erano arrivati a fare qualcosa come 50 - 70 colori diversi che si ottenevano sempre attraverso le sommersioni. Non è che nella fornace di Simone Cenedese ci fossero 70 colori, i colori nei crogioli erano sempre quelli, 6 al massimo in un giorno! Ma è il mettere questi supi, questi pezzi di vetro messi a riscaldare, che poi venivano presi dalle canne, e poi su questo primo colore veniva messo un altro colore e ne usciva fuori un colore che non è più né l’uno e né l’altro. Questo lavoro veniva poi raddoppiato o triplicato nelle Flags o nei Tokyo Ga perché c’era in ballo il rapporto tra i colori che si confrontavano con gli altri colori finiti nell’incalmo o negli incalmi .Questo lavorare sul colore era una delle cose che Laura conosceva di più, era una delle persone più competenti a Murano e se uno vuole semplificare sta’ tutto nella Serie dei bambù. Credo ne abbiano fatti qualche migliaia.
Torniamo in Repubblica Ceca, cominciamo di nuovo.
Allora, alla sua domanda fatta a Charlie, in che maniera potesse fare le sue bandiere, le sue Flags in Repubblica Ceca, utilizzando questo colore nuovo per lei, l’Uran, visitammo il laboratorio dell’ingegner Swaha dove, mediante delle enormi muffole, si lavorava con la tecnica dello slumping.
L’ingegner Swaha, le sue muffole ed il bicchiere Uran del primo tentativo
Cominciarono con degli esperimenti ed il primo esperimento fu questo: comprarono da Moser un bicchiere qualunque di questo colore Uran, e questo bicchiere venne messo in muffola con una certa inclinazione . Dev’esserci ancora questo oggetto da qualche parte in casa e si può chiamare anche il prototipo di tutto il lavoro che farà Laura negli anni successivi in Boemia attraverso continui tentativi ed esperimenti.
Sono tante le cose di cui si può parlare a proposito del lavoro di Laura in Repubblica Ceca. Uno come in un fumetto o in un romanzo potrebbe dire: “alla ricerca del piede”, il titolo del capitolo è “alla ricerca del piede”. Tutto il lavoro stava nel riuscire a fare in maniera che questi cilindri fatti soffiare da Laura in colori diversi fossero autonomi, si potessero reggere, potessero stare in piedi. Ed il problema fondamentalmente era che bisognava procurargli un piede. E gli esperimenti che si conclusero felicemente con i pezzi che vedi qui, ed il capitolo si intitola “il piede trovato”, furono molteplici e dispendiosi. Ci volle quasi un anno prima di arrivare a trovare sia il punto d’appoggio, cioè la forma su cui appoggiare il cilindro, sia l’inclinazione, sia la temperatura dello slumping.
I primi stampi, le inclinazioni, alla ricerca del piede
Lo slumping che cos’è? Non è altro che la tecnica dello sciogliere per una seconda volta un vetro che prima di acquistare una qualunque forma all’inizio è liquido . Asciugata questa forma iniziale in una muffola , questa forma viene ripresa e portata successivamente in un’altra muffola cercando di tornare allo stato di partenza liquido senza che in realtà questo avvenga, cercando delle nuove forme attraverso questo progressivo ammollarsi. Si trattava cioè di agire sulla natura stessa del vetro e del relativo processo creativo.
Lavorando con dei cilindri si cominciarono a fare dei pezzi che risultarono privi di un piede e quello fu il primo grande problema da risolvere che condizionò i primi esperimenti.
Si trattò poi di cercare di utilizzare in qualche maniera questi primi risultati. Vennero fatte diverse mostre in cui questi pezzi , queste stele, venivano con diversi espedienti agganciate al muro, pendenti, come avvenne nella mostra che ci fu nel 2015 nello Yorkshire vennero anche composti davanti all’altare. Se si va a vedere in dettaglio la fotografia di quell’altare, si possono riconoscere i vari passaggi e i vari tentativi che furono fatti per trovare il piede. Ce n’è uno in cui il piede è a tre quarti , come farebbe un penitente, un uomo in ginocchio, un mendicante.
Queste prime creature oltre che nello Yorkshire sull’altare, sono le protagoniste della mostra di Milano curata da Sabino Frassà, dentro la chiesa in cui ha sede la Fondazione Messina.
Anche là vennero composte su di uno spazio di metallo nero che si godeva interamente dall’alto in un’ insieme che ci riporta alla esperienza di grafica di Laura . La mostra si chiamò “fedeli” perché quei monoliti senza colore, bianchi o di cristallo, cistercensi o certosini sembravano pregare, implorare una qualche grazia. La mostra “ fedeli” ha rappresentato il maggiore momento di gloria di questi monoliti che ebbero anche un’altra esposizione molto importante a Innsbruck, dove era stata portata la mostra di Laura e Alessandro a Le Stanze del Vetro del 2014.
Nella mostra Wunderglass del 2016 , quei monoliti di cristallo furono come le pareti di una antica ed enorme vasca da bagno di piombo che c’era nel castello di Ambras come fossero pareti d’acqua che scorreva.
Ma la prima vera mostra del lavoro fatto in Boemia fu quella a Venezia del 2014 per Le Stanze del Vetro quando finalmente il piede era stato trovato.
Ed il colore?
Mentre ancora continua la ricerca del piede Laura prosegue nella ricerca delle combinazioni dei suoi colori con il nuovo colore che trova nella Repubblica Ceca, l’Uran. Comincia a sperimentare con piccole dimensioni, con l’intensione di trovare dei nuovi Tokyo Ga . Con l’aiuto di un bravissimo molatore di Novy Bor che riuscì a far diventare un’unica parete sottilissima la bocca del cilindro che era ancora evidente, venne fuori una nuova serie che Laura chiamava “le lamette”.
Fu su questa dimensione che Laura fece le sue prime sperimentazioni del colore con l’Uran. Ma poi le dimensioni mutarono e c’è una bellissima opera che fu esposta nella mostra dello Yorkshire del 2015. Sono, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette pezzi, sette colori, e come si può vedere questi pezzi non si reggerebbero mai se non fossero saldati ad una base di metallo che permette loro di stare in piedi. In quest’opera inoltre questi monoliti colorati si possono anche far girare perché il colore possa esibirsi in varie combinazioni di luce. Il sogno di Laura, la sua aspirazione, era che potessero ruotare agevolmente, come quei cilindri su cui sono incise delle preghiere che circondano alcuni templi buddisti e che la gente fa ruotare mentre si avvicina al tempio.
A proposito di stele, di monoliti, di templi d’oriente , mi vengono in mente i templi di Polonnaruwa in Sri Lanka che avevano fortemente segnato l’immaginazione di Laura , ed inoltre quelle lastre di pietra con cui erano segnati i percorsi degli attori per raggiungere la scena nei teatri greci. Di questo si potrebbe parlare, a proposito di quella verticalità che si ritrova in moltissime opere di Laura . Dovunque incontrasse rettangoli di pietra in verticale Laura si fermava a fotografare, a disegnare. La verticalità l’ha sempre attratta.
Ritornando alle opere realizzate a Murano, ai monocromi di dimensioni diverse, ad un certo punto lei incomincia a sentire il bisogno di andare oltre la situazione della semplice contrapposizione dei colori che stava nelle Flags e cominciò ad intervenire sui pezzi in maniera diversa. Cominciò a tagliare questa nuova cosa quasi bidimensionale ( non dimentichiamo che per quanto appiattisse la sfera, la tridimensionalità continuava ad essere presente nelle sue opere che vibravano sempre di una loro intensa fisicità ) , tagliandola lungo i bordi e risaldandola successivamente. Oppure tagliandola nel centro e richiudendola, come un’operazione chirurgica dallo stomaco allo sterno- Questi tagli verticali, estremamente fisici appartengono a molte opere di Laura, comprese quelle realizzate in basalto nero a Pietrasanta. Sono tutti interventi che provenivano dalla suggestione della lettura delle metamorfosi di Ovidio che raccontano di Mirra. Infatti queste opere di diverse dimensioni che hanno il taglio nella parte centrale le aveva chiamate Mirra.
Nella mitologia greco-romana Mirra era una giovinetta consacrata ad Artemide ed era follemente innamorata del padre. Riesce a corrompere la sua nutrice e si infila nel letto del padre che ubriaco la possiede durante la notte. Risvegliatosi al mattino e riacquistata la sua lucidità il padre vede accanto a se la figlia Mirra addormentata. Inorridito la insegue con la spada e vuole ucciderla e lei fugge, corre, corre nel bosco e invoca Artemide la divinità cui era votata . La dea allora la trasforma in un albero nel momento stesso in cui il padre con la spada mena il colpo che la dovrà uccidere e la spada si infigge dentro all’albero creando una enorme ferita. Questo è l’albero di Mirra che come tutti sapete è una resina profumatissima che proviene da un albero che dalle lesioni della sua corteccia , come delle ferite, produce questa materia resinosa, la mirra che si fa bruciare negli incensieri , uno dei tre doni che portano i Re Magi a Gesù Bambino: oro, incenso e mirra. Evidentemente delle cose molto preziose.
Questi tagli Laura li riportò su dei monoliti di basalto nero che realizzò con l’aiuto di Nicola Stagetti e che rendono evidenti al massimo grado la vocazione verso la scultura e la natura sensuale, fisica, del suo rapporto con i materiali che lei incessantemente cercava.
Ma interviene sempre il bisogno di un controllo. Questo stesso taglio, una sorta di fenditura, la ritroviamo nel bianco marmo di Pietrasanta dove la sensualità è costretta dentro il limite della proporzione aurea, il corpo e la mente in stretta confluenza armonica. (Foto marmo bianco)
Ed anche nei grandi cristalli, dove il vetro si inarca e precipita brutalmente rivelano la sua vocazione verso la scultura. Furono esposti alla biennale e poi a “Le Stanze del vetro”, nel 2014.
Tutta questa digressione s’è avviata perché parlavamo della verticalità, del taglio verticale. Anche a Novy Bor questa verticalità continua immediatamente nella scelta di lavorare su dei cilindri che stanno in piedi in verticale, cilindri di diversa altezza, cilindri che nel lavoro in Boemia ritornano sempre.
Risolto in maniera definitiva il problema del piede Laura passò a lavorare con due cilindri, il duetto, e poi con tre cilindri, il trittico. Il duetto sono due cilindri accoppiati che fondono contemporaneamente e il trittico che è formato da tre cilindri. Ma era anche la conseguenza di tre anni di esperimenti, tre anni di lavoro da parte dei collaboratori, anche l’affinamento nel trovare la temperatura giusta e lo stampo giusto, e l’inclinazione dello stampo tale che permettesse la formazione del piede.
La formazione di Laura?
Ricordo la frequenza con cui io insistevo nelle mie prime chiacchierate con Laura con il chiederle quanto valesse per lei il fatto che avesse avuto un nonno che si chiamava Giorgio De Santillana storico della filosofia della scienza che aveva insegnato al Mit di Boston ed un padre architetto che aveva diretto la Venini per 26 anni . Il padre, come raccontava Alessandro, li mise al lavoro al tavolo da architetto già da bambini ponendo loro dei problemi dove la scienza , il calcolo, prendevano subito una parte importante nella loro formazione: trasporre in scale diverse alcuni disegni di Wright, cose di questo genere. Le chiedevo cioè in che maniera la scienza e la matematica erano entrate nella formazione dei giovani Santillana e di Laura dato che di lei stiamo parlando. Lei sorrideva e scherzando diceva: ” sarà forse per questo che io cerco sempre qualcosa di matematico, la prima cosa che faccio quando vado in fornace è dare i numeri delle dimensioni dell’oggetto da realizzare, qualche cosa che sia una specie di formula”, usava questo termine, e io cerco una formula nuova. C’è certamente una formula scientifica che racchiude il segreto dello schiacciamento delle mie sfere etc. una formula che possa diventare una tecnica,come avviene sempre per ogni lavoro artistico. “Ma non posso continuare a ripetere la stessa formula”.
E stette degli anni per trovare la nuova formula. E la trovò a Novy Bor.
Questa nuova formula la riportava miracolosamente nel mondo dei numeri, della matematica e della scienza. Laura dice in una intervista a proposito dei suoi lavori in Repubblica Ceca: “questa nuovo contesto a priori mi stimola perché adoro le avventure, ma allo stesso tempo devo dire che non so ancora se con la squadra di Praga ci si capisca sul serio. Quel che mi piace molto di quella situazione è che le nostre conversazioni avvengono quasi unicamente su un piano scientifico, si parla soltanto di tecnica, lasciando completamente da parte la dimensione estetica. Si parla solo di viscosità, temperatura, gravità, come se si trattasse di un esperimento scientifico: “Proveremo questo spessore, questa temperatura, saliremo a 750 gradi per venti minuti anziché dieci.”
Pensandoci bene alla fin fine i collaboratori di Laura fino a quel momento erano stati i maestri vetrai, muranesi o americani che fossero. Per quanto lei potesse pilotarli c’era sempre stata la presenza del maestro, la presenza umana di qualcuno che attraverso la sua conoscenza degli strumenti e la personale sensibilità stava tra l’artista ed il vetro, come un mediatore. Anche la maniera di spingere un vetro, una sfera di vetro con maggiore o minore forza, per quanto vicino Laura stesse accanto al maestro e gli dicesse “ di più, di meno”, c’è sempre la mediazione di un uomo, di un altro individuo tra l’artista e la sua opera.
Ma nel passaggio alle opere cecoslovacche, questo individuo diventa un ingegnere, non è più il maestro. Per Laura è come un uscire da una specie di schiavitù . Per questi lavori con la tecnica dello slumping questa persona è un ingegnere, e si possono anche calcolare al computer certe cose riguardanti il rapporto tra gravità, inclinazioni etc. Insomma, è un discorso in cui Laura ritrova per intero la sua estetica attraverso una re-immersione nel mondo della scienza, da cui era partita. E’ sempre il grande miracolo che compie l’artista di trasformare una tecnica in bellezza.
Tutto calcolato insomma?
Quando ho parlato di quei cristalli fatti da Laura nel periodo in cui ancora la Boemia era lontana, ho detto dell’intervento del caso nei monocromi in cristallo. Tutte le volte infatti che Laura lavorava a dei cristalli o con colori molto tenui, quando le due pareti del soffio venivano a contatto, il caso formava delle figure. Questo attaccarsi delle due pareti non era certo sotto controllo ed era qualche cosa che si scopriva solo dopo. Laura passava giorni a guardare le opere che aveva fatto in un paio di giornate di lavoro a Murano , quando le arrivavano a casa, e solo allora cominciava a conoscerle, ad accettarle. Diceva: “quando faccio una cosa io non so cosa sto facendo. Solo che cosa ho fatto, posso sapere. Soltanto dopo che l’ho fatto, so. Comincia allora la mia relazione con il pezzo”. C’erano pezzi che appena li aveva visti non le piacevano e che poi invece a poco a poco li capiva e capiva che cosa cercavano di dirle, in che maniera bisognava metterli e quale era la maniera giusta di guardarli. Si cerca solo dopo aver trovato.
Ora non vorrei che l’aver detto il caso, che ha sì una grande importanza nelle scelte di Laura, facesse pensare che Laura fosse una persona che era disponibile al disordine del caso. Il sogno di Laura era sempre quello di un caos che lei , pur osando e violando le leggi della natura della materia, facesse diventare un caos ordinato. Se uno prende tutti i vari esperimenti e le fasi di passaggio del lavoro in Boemia è certamente visibile questo percorso e questo suo sforzo verso l’ordine, verso il controllo sulla materia.
La prima cosa che fa il vetro se lo si mette in muffola ad alta temperatura? Fa quello che è la sua natura, si squaglia. Perciò inizialmente abbiamo cominciato con l’avere dei pezzi che nel liquefarsi propriamente scendevano giù partendo da cilindri di oltre un metro che si coagulavano tutti verso il basso creando delle forme bellissime, dei pezzi che oggettivamente erano importanti, pieni di forza.
Così sembravano a me che non ho mai avuto l’anima di Laura, perché io sono un confusionario per mia natura, Laura invece era pulita e sobria e queste opere lei non le ha mai messe in mostra, non le ha mai adottate, considerate sue proprie creature…perché sentiva che doveva fare qualcosa di più, che era troppo facile insomma. “E’ come quando un bambino fa il primo disegno all’asilo nido…”ah guarda che bravo questo bimbo, questo disegno!“. Tutti sanno disegnare, tutti!... “ah che estroso questo bambino, ha un talento, qui c’è l’arte moderna dicono gli ignoranti, questo lo faccio anche io etc..”.
No, lei cercava altro. Quello che cercava era l’ordine dentro questo caos che è rappresentato dal caso.
E le maniche? Non furono anch’esse realizzate in quel periodo in Repubblica Ceca?
Si certamente ma diversa fu l’ispirazione. Quei cilindri colorati permisero a Laura di realizzare un progetto che aveva in mente dal tempo in cui aveva letto il capolavoro della letteratura giapponese, il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu. Il suo amore per il Giappone l’aveva portata ad approfondire la letteratura femminile della stessa epoca (solo le donne scrivevano in giapponese. Gli uomini usavano ancora il cinese), i diari delle dame di corte del periodo Heian. Aveva appreso così di quanti strati fosse formato l’abbigliamento delle cortigiane dell’epoca. Ogni veste si sovrapponeva alle altre, da un minimo di 8 ad un massimo di 20 sovrapposizioni in alcune circostanze. Ogni veste successiva aveva maniche sempre più corte ed i colori diversi, integrali o per trasparenza , si rivelavano quindi nelle maniche che le cortigiane maliziosamente offrivano agli occhi dei cittadini che vedevano passare su questi lenti carri trascinati da buoi, completamente chiusi tranne per che per le due aperture laterali. Le cortigiane erano ritirate nella parte chiusa e solo quel braccio ricco di colori le rivelava. Con i cilindri che soffiava, di misura e colori diversi, Laura realizzò questo suo progetto in cui confluiva tutto il suo amore per il colore e la tecnica delle velature. Queste sue maniche furono esposte nella grande sala spagnola del castello di Ambras nel 2016.
Laura provò diverse volte ad usare anche con le maniche la tecnica dello slumping ma i cilindri afflosciandosi uno sull’altro finivano per rompersi e non si fu capaci di capire in che maniera si potesse evitare. Dapprima si pensò fossero i colori. Ma anche il tentativo di farli con solo cilindri di cristallo fallì. Devono esserci delle fotografie che documentano questi tentativi. L’ingegnere le consigliò di provare con il pirex ma Laura aveva delle resistenze a tradire il suo vetro e non fece altri tentativi. Ma credo che prima o poi avrebbe trovato la strada. Si trattava in fondo dello stesso problema che aveva avuto quando aveva schiacciato per la prima volta la sfera, appiattendola. Si trattava di continuare a provare. Quelle foto ci dicono che cose meravigliose ne sarebbero venute fuori.
Lasciamo le opere “coricate”, maniche ed esperimenti falliti. Ritorniamo alle opere in piedi.
La bellezza di questi pezzi è un punto di arrivo di tutto il lavoro di Laura. Io non riesco ad immaginare quanto lei avrebbe voluto lavorare intorno alla nuova “formula” e che cosa avrebbe prodotto ancora di variazioni rispetto a questa scala che lei comincia a salire con i primi pezzi monocromi e coloratissimi fino ad arrivare a queste ultime opere di solo cristallo, qualche rara mescolanza di alabastro. Questa nuova tecnica rende però evidente una costante del lavoro di Laura e se uno parla di Laura dovrebbe cominciare a parlare della grazia, dovrebbe cominciare a parlare del fascino che hanno esercitato su di lei fin dall’inizio le culture orientali, la sua religiosità. Non è un caso che Barry Friedman le propose diverse volte di costruire, di progettare, una sala di meditazione per un albergo in America che un cliente gli aveva chiesto dato che aveva molti ospiti di religione orientale o islamica, una sala di meditazione fatta, progettata con opere di Laura partendo dai suoi Monocromi in cristallo . Un'altra volta le giunse la richiesta di un intervento per la cappella dove è conservata la corona di spine a Parigi a Notre-Dame , ed il curatore del restauro le chiese di creare un’opera su cui si poggiasse la corona di spine di Cristo. Laura si recò a Parigi ma poi la richiesta non ebbe un seguito.
Caterina Tognon le fece commissionare da una chiesa di Bergamo un pezzo che stesse sull’altare al posto dell’ostensorio nella funzione serale quando viene esposto e viene data la benedizione. Era un bellissimo monocromo rosso.
Parlo cioè di una religiosità di Laura nonostante lei provenisse da una famiglia totalmente laica e non avendo lei stessa adottata nessuna religione, ritenendosi assolutamente laica. Questa religiosità naturale che io chiamo grazia, messa accanto alla scienza e a tutti gli studi sugli archetipi, le letture di Jung e di Mircea Eliade , Guenon ed Aurobindo, letture sulla consapevolezza di come nelle varie religioni le cose stranamente si ripetano e si finisca con il fondarsi sugli stessi principi; poi la scuola minimalista di Vignelli, se cioè noi pensiamo cosa voglia dire la sua formazione di grafica, la riduzione all’essenziale, la stilizzazione come un dovere. Non a caso Laura comincia professionalmente come grafica, incomincia a lavorare a 20 anni con un contratto per una casa editrice americana nello studio di Vignelli. Cosa vuol dire la grafica se non un’introduzione al minimalismo che diventerà imperante in tutti gli anni successivi. Questo minimalismo proveniente dalla grazia diventa una ricerca ascetica, una ricerca verso qualcosa di spirituale, di profondo, realizzata attraverso un togliere, togliere progressivamente, e così finisce che queste stele coloratissime si allontanino a poco a poco… Già al tempo in cui il successo le arriva con le Flags , i Tokio Ga lei stessa ad un certo punto incomincia a fare tanti cristalli e pure i cristalli erano quelli che Barry voleva di meno, perché erano quelli che si vendevano di meno, perché tutti volevano i colori, volevano i colori di Laura, il tricolore, il bicolore, ma i pezzi che Laura preferiva erano i cristalli.
Il cristallo perché?
Perché trovava sempre che il colore era, non dico una sovrastruttura, ma qualche cosa che ti fa disperdere nell’emozione superficiale, è il più terreno degli elementi con cui lavorava. La ricerca di Laura invece era cercare di asciugare, di asciugare sempre di più…e che si manifestava in questo salire di temperatura col rischio che ogni volta si correva nell’alzare la temperatura nelle muffole di Nový Bor, che ad un certo punto ci si avvicinò agli 800 gradi e questo produceva la liquefazione del pezzo, la distruzione del pezzo era là vicino, era il rischio che si correva… Infatti i cilindri afflosciati formavano delle bolle d’aria, dei buchi, perché, d’accordo con l’ingegnere nella cui struttura lavorava con il procedimento dello slump, avevano trovato che facendo dei cilindri che superavano in altezza la lunghezza della struttura in refrattario su cui erano posati i cilindri, nello squagliarsi questo vetro più lungo tende a piegarsi all’indietro , verso l’esterno del contenitore Fa così da àncora, così si aggrappa al refrattario, come si aggrappano i rampicanti sui muri.
Ce ne è uno che si chiama La zampa del gatto che è fatto da cinque unghie che si aggrappano al muro. Ecco questo pezzo in alto si aggrappa e trattiene il cilindro che tende a colare in basso. Allora trattenuto in alto il cilindro, il calore incomincia ad agire nel punto in cui non è più trattenuto e quando il calore aumenta si formano delle bolle d’aria nel vetro ed infine dei buchi, mentre il resto continua a confluire a causa della pendenza, della gravità, fino a formare nuovamente il piede.
Fontana e Burri maestri insostituibili?
La sua presunzione, la sua sfida, continua fino all’ultimo a mettere in discussione il suo rapporto con la materia. Con l’amore nei confronti di questa materia, il vetro, che lei penso che considerasse il materiale più alto con cui un artista possa lavorare, perché è disincantato, disinfettato, sterilizzato, è una materia che è stata al fuoco, è una materia pulita come la nonna olandese calvinista. È una cosa che non puoi toccare, che non puoi contaminare con le tue mani. È qualche cosa di misterioso. È qualche cosa per cui quando ti avvicini a lavorare con questa cosa devi fare in maniera di non sporcarla, di non sporcarne il mistero.
Ora in questo andare contro, questo pulire, questo togliere, questo cercare di trovare l’anima, la natura di che cosa stai facendo, tutto il lavoro di Laura sta in questo continuo liberarsi, liberarsi da esigenze che possono essere del mercato, che possono essere della sua cultura, che possono essere della tradizione muranese, che possono essere dalle circostanze in cui ti ritrovi. Liberarsi per ritrovare questo segreto del materiale. Questo asciugarlo, abbandonare il colore , tutti quei colori che tanto amava e andare poi alla fin fine a questo pezzo di vetro trasparente che sta per liquefarsi e crea dei vuoti, dei buchi, sta per sparire e diventare solo vuoto… E’ proprio come cercare di entrare dentro il segreto di quella materia. Il vetro è il grande amore di Laura.
Vorrei tanto sapere cosa avrebbe fatto Laura dopo, se questi trittici sarebbero diventati dei sestupli, se immaginava di coniugarli in una sorta di paravento infinito o se ne avrebbe coperto delle pareti, lunghe pareti in cui tutti questi elementi andavano tutti in successione e forse sarebbe ritornato il colore nel momento in cui sarebbe tornato il desiderio di comunicare con i desideri degli uomini, i colori, le forme, che cosa ci sarebbe stato dopo…?
È bello ricordare che proprio nell’ultimo giorno della vita di Laura le fossero giunte le fotografie dell’ultima sua fusione a Nový Bor. Le mandò, quelle fotografie, Jitka Havlickova, la sua collaboratrice praghese. Credo sia stato uno speciale momento di gioia di Laura. Il giorno dopo è stato l’ultimo.
Gianluigi Calderone
Venezia estate 2023